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lunedì 9 luglio 2012

"Le figlie di Magdalene" recensione di Isabella Polimanti

Il potere dell’oppressore esiste perché esiste la paura dell’oppresso.

Solo il superamento della paura, allora, può renderci liberi.

Con questa consapevolezza, dopo aver assistito ad un’opera (d’arte, si intende!) che è un meccanismo perfetto nella sua espressione e rappresentazione, lo spettatore esce dal teatro Sala Uno, dove in questi giorni sono in scena gli allievi del terzo anno dell’Accademia d’Arte Drammatica Cassiopea.

Diretti da Tenerezza Fattore rappresentano la pièce - “Le figlie di Magdalene”, un testo liberamente tratto (e adattato con sapiente abilità dalla stessa regista) dal film “Magdelene” di Peter Mullan. Il pezzo si fa denuncia storica e umana. Si narra la storia delle Case Magdalene, istituti religiosi femminili dell’Inghilterra e dell’Irlanda del XIX secolo dove venivano recluse donne, quasi sempre giovanissime, giudicate colpevoli di “immoralità”.

Un’immoralità che si riconduce sempre ed esclusivamente alle condotte agite con l’altro sesso, anche se involontarie, anche se subite senza consenso.

Ed ecco che lo spettacolo apre, illustrando efficacemente anche dal punto di vista scenico, tre casi di condotta “immorale” per i quali altrettante ragazze sono “condannate” alla reclusione nel convento: uno stupro subìto, un figlio illegittimo, l’accettazione di avances da ragazzi presso un orfanotrofio. Rose, Phyllis e Martha, ben interpretate rispettivamente da Selena De Vitis, Barbara Bianchi e Giuseppina Loschiavo, vengono accompagnate, e rinchiuse, nel convento.

Qui saranno obbligate a lavorare principalmente come “lavandaie”, a simboleggiare il tentativo e il proposito, indotto e imposto, di lavarsi l’anima, di pulire e purificare lo spirito dal degrado morale.

Così come fu per Maria Maddalena, dapprima peccatrice, poi redenta e convertita da Gesù per vivere nella grazia.

Sottoposte all’isolamento e alla penitenza, vengono oltraggiate e umiliate nei più ancestrali aspetti della femminilità: il taglio dei capelli, la comparazione dell’organo-simbolo della maternità: il seno; vengono obbligate a stare sempre a capo chino in segno di sottomissione; vengono deprivate del sentimento viscerale più nobile: il senso materno.

Vivono in condizioni esasperate ed esasperanti.

Ma l’oppressione divide, non c’è solidarietà nei momenti di tensione e sofferenza. La sofferenza dell’altro è un intralcio alla propria, e si diventa intolleranti e cinici.

Per uno strano meccanismo, forse umanamente comprensibile, l’oppressa – nelle fasi di maggiore sofferenza – non solidarizza con le sue simili, piuttosto si avvicina all’oppressore cercandone il consenso, come se questo fosse indice di protezione. Arriva persino a denunciare la compagna che ha ceduto a una trasgressione, oppure – al contrario - subisce passivamente e si chiude in un isolamento mentale e comportamentale.

Anche la condizione morente di una compagna genera insofferenza, e neppure il pianto, in condizioni così estreme, diventa liberatorio. E’ solo disperato.

La sudditanza non è solo imposta, ma diventa sudditanza psicologica e, come tale, interiorizzata in uno stato d’animo.

L’unione, finalmente, arriva con la fase della ribellione. E’ una presa di coscienza che, come una piccola scintilla che scocca e poi si allarga e si espande fino a diventare incendio, è inarrestabile.

E’ il momento di ribellarsi, di rischiare….ma poi rischiare cosa? Le violenze e la sopraffazione sono una costante, ci sono e ci sarebbero.

E allora, come un sentimento contagioso e dilagante, l’istinto di ribellione si espande, la voglia di libertà, sentita e partecipata, diventa impulso comune; c’è una metamorfosi in ognuna che porta al desiderio di liberarsi dalle oppressioni, dalle umiliazioni, da quel potere conferito solo dalla paura di chi è oppresso.

E’ un processo graduale e in espansione: la consapevolezza di volersi ribellare, lo sguardo all’altrove, la ricerca interiore del senso sacro di libertà, la ribellione agita e dichiarata.

La scena si riempie di movimento, di partecipazione attiva; di colori, perché le vesti imposte dalle regole del convento sono una forma di repressione anch’esse, e le vesti e i loro colori cambiano insieme allo stato d’animo.

In una crescente presa di coscienza si spande, palpabile, il sentimento comune di riuscire nell’intento.

Si inneggia alla libertà, e la voglia di libertà unisce e dà forza. Come il canto, come il coro.

Uniti nel finale in un canto catartico ed emozionante, in cui anche lo spettatore idealmente si unisce, i ragazzi si liberano fino a godersi, stremati ma soddisfatti, l’applauso caloroso - e lunghissimo - del pubblico.

Colpisce la capacità artistica di questi allievi, fatta di talento e formazione, espressa nel rapporto con il proprio personaggio: nello sguardo, nella postura, nel movimento scenico, nel mantenimento dello spazio prossemico; tutto abilmente esercitato anche nelle numerose controscene.

Plauso particolare ad Arianna Saturni (interpreta il personaggio di Crispina) che in una scena particolarmente forte della rappresentazione, quando viene creduta pazza, riesce in un’interpretazione particolarmente convincente, apprezzabile ed emozionante.

L’assoluta compostezza dei canti e delle performances ritmiche di cui i giovani allievi danno prova, rende lo spettacolo particolarmente gradito nel ritmo e nell’atmosfera, a volte solenne, che viene a crearsi in un contrapporsi sottile tra tirannia e senso di libertà.

Di significativo impatto la trovata scenica di una cancellata che segna il confine, l’altrove, il limite oltre il quale non esiste più libertà e dignità, ma solo oppressione e sopraffazione; nei momenti in cui tutto questo si fa più intenso, campeggia suprema, a dominare la scena e la vita in essa rappresentata, l’immagine simbolo della Casa Magdalene che s’innalza sovrana sull’arco centrale della scena.

Di grande effetto, e particolarmente adatta al piéce, la cornice scenografica, un sito architettonico di grande significato storico e di rara bellezza: la navata centrale della cripta della Scala Santa.

Con archi e volte composte di mattoni, crea una fedele identità ai luoghi di cui si narra, e dà la giusta atmosfera all’ambiente, valorizzata e ingentilita da un sapiente gioco di luci.

Definire “saggio” questo spettacolo appare oltremodo riduttivo; si tratta piuttosto di un’opera di elevato tenore, una rappresentazione elargita con precisione, con un meccanismo sincrono nei movimenti scenici, nei tempi e nell’interpretazione; cosa non facile, e dunque particolarmente apprezzabile, considerando anche il numero elevato degli attori in scena: trenta, tra cui anche alcuni ragazzi molto giovani (tra gli otto e i dodici anni).

Una scelta coraggiosa quella di Tenerezza Fattore: un tema forte, di grande impatto emotivo. La scelta di rappresentare la sofferenza, l’ingiustizia, l’oppressione, appare audace e ambiziosa ma ampiamente riuscita nell’intento: quello di emozionare e di far riflettere.

Bravi ragazzi!

L’auspicio è che un’opera di così grande significato artistico, realizzata con grande investimento spirituale come questa opera risulta essere, non cessi di comunicare le emozioni che genera e che ha generato.

Si auspica la giusta distribuzione teatrale che questo spettacolo, certamente, merita.

“Il teatro è il racconto di un uomo che diventa racconto di tutta l’umanità”, diceva Strehler , e da questo spettacolo lo spettatore trae certamente spunto per sondare le proprie piccole o grandi forme di repressione, fino a ricercare in sé la forza per il senso di ribellione necessario per liberarsi dalle oppressioni in qualunque modo subite; e ritrovare, infine, la libertà di cui ogni singolo individuo, in ogni contesto, ha pieno diritto.

 Isabella Polimanti

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